Gli slogan cambiano, le informazioni passano in secondo piano e ripetiamo sempre gli stessi errori del passato: ecco qual’è la sostanza. Il vino ci accompagna da millenni e ha seguito usi e costumi come pregi e virtù delle popolazioni, diventando un vero e propria filo rosso con la storia e specchio della società del suo tempo. Così, anche in questo momento apparentemente drammatico in cui rimbalzano notizie di crolli, cali e crisi, dobbiamo interrogarci su quanto sia responsabilità (o mancata responsabilità) della società dei consumi e dei produttori, apparentemente così slegati gli uni dagli altri.
All’annuncio dei dazi minacciati da Trump si gridava allo scandalo, ma provocatoriamente avrei chiesto agli stessi italiani: “e se fossimo noi italiani ad applicarli su olio, ortofrutta o altri generi alimentari largamente prodotti internamente?”, sono sicuro che, oltre a qualche economista, radical chic e società di importazione la stragrande maggioranza degli italiani si sarebbe dichiarata a favore di misure in difesa del prodotto locale. Ma la miopia sta proprio qui, anzi, non solo qui. Primo, perchè in un contesto attuale di mercati globalizzati è ormai impossibile perseguire politiche autarchiche mantenendosi produttivi e al tempo stesso competitivi, mentre i famosi effetti a medio-lungo termine sono proprio quelli che andrebbero a penalizzare il segmento dei consumi e a ricaduta, l’offerta locale.
Quindi, perseguire politiche di proibizionismo oggi potrebbe apparire anacronistico, ma difesa e tutela del bilanciamento tra domanda e offerta no. Non meravigliamoci quindi se in alcuni Paesi, come Canada o Norvegia, i flussi sono regolamentati da Monopoli statali mentre altri mercati strategici per l’export italiano, come UK e Germania, hanno anch’essi una serie di normative e regolamentazioni non sempre agevoli. Basti pensare che in Germania sopravvive un’accisa introdotta nientepopodimeno che dal Kaiser Guglielmo II nel 1902… eppure avete mai sentito gridare allo scandalo? Ecco. Quindi non lasciatevi deviare dai titoli, dalla paura che “i giovani non bevono più vino” e altri tormentoni che ciclicamente trovano il proprio spazio in prima pagina a seconda della propaganda o della statistica che si vuol far emergere (ho scoperto articoli di oltre un secolo fa in cui si parlava di giovani che si allontanano dal vino, packaging alternativi e vino dealcolato, per dire quanto la storia sia ciclica), ma ragionate su una semplice conseguenza causa-effetto, applicando gli effetti della globalizzazione al vostro ragionamento: in Italia sono cresciute le produzioni, le DOC, le aziende e i soggetti coinvolti… e finchè c’erano mercati da aprire sembrava andare tutto a gonfie vele. Nel frattempo però, il mondo stava cambiando molto velocemente, sia in termini climatici sia geopolitici, fino al Covid, dove il mix che ha drasticamente mutato consumatore, economie ed equilibri ha sferrato quel colpo fatale a quel mondo agonizzante ma inconsapevole di ciò che stava accadendo.
Tornando quindi alla domanda, quale penso sia il vero problema del mondo del vino oggi? Lo stesso di sempre, che agisce sulle emergenze piuttosto che sulle prevenzioni, che soffre territorialmente mentre è lasciato ai margini globalmente, mentre per l’Italia prevedo un futuro che vedrà meno attori coinvolti ma più consapevoli e responsabili, meglio organizzati e interessati a generare economie di scala, distretti agroalimentari (nonché enoturistici) e produzioni che sappiano trovare il proprio posizionamento nel mercato di domani, apparentemente molto diverso da quello attuale.
Vorrei finalmente vedere un giovane rispondere. Perchè questo argomento è spesso affrontato e discusso da persone che, con tutto il rispetto per la loro storia e la loro opera, non possono più ritenersi attori coinvolti in questo argomento. Ciò non vuol dire annullare le buone azioni e l’importanza del tramandarsi quanto di buono costruito in passato, ma occorre scrollarsi di dosso quei dogmi e quelle convenzioni che sono stagnate nel corso dei decenni e che non hanno avuto risposta da parte delle nuove generazioni. Quando leggo alcune interviste circa questo argomento mi chiedo: “ma hanno parlato con un giovane prima? Hanno compreso come vivono, con quali aspettative, con quali desideri? Se hanno interesse nel vino come bevanda o lo ritrovano un legame con la propria cultura?”. Il nesso vino-consumatore si è trasformato per molteplici fattori, non solo legati al prezzo e alla presenza di altre bevande, ma anche per il semplice fatto che in Italia si sono perse alcune consuetudini, così come sono entrate nuove esigenze di mercato e legate alla persona. Ciò significa che il vino scomparirà per sempre dalle nostre tavole? Assolutamente no, ma non dobbiamo augurarci che i nostri giovani bevano la stessa quantità di vino che bevevano i nostri nonni alla loro età. Piuttosto, non isoliamoli dalla conversazioni, dagli spunti che potrebbero fornirci, dalle nuove chiavi di letture e soprattutto, dalle nuove modalità di fruizione…. O pensate che in futuro basterà scrivere “tradizione e innovazione” per poterli conquistare?
Ho il piacere di affrontare l’argomento quotidianamente e sono dell’idea che stiamo attraversando una fase di “nuovi inizi” viste le incombenti minacce che ci obbligano a fornire quanto prima delle soluzioni, sia in cantina che in vigna. Resterei cauto nel dare soluzioni con assoluta certezza, ma seguo con grande interesse il lavoro di enologi che hanno sviluppato protocolli che riducono l’impatto ambientale, così come mi tengo sempre aggiornato sulle previsioni/condizioni in specifici territori grazie al supporto di agronomi e periti tecnici, nonchè della viva e spassionata opinione dei cantinieri che talvolta, tra una bestemmia e l’altra, mi lasciano intuire che dalla 2022 non si riesce più a prevedere nulla con certezza. Mi terrei distante dal fornire soluzioni, io che mi occupo di comunicazione e sono laureato in economia, ma posso sentenziare dalla mia esperienza alcuni passi in avanti che, seppur non sempre in chiave tecnica/tecnologica, dovremmo affrontare:
Sarò di parte, ma nella comunicazione tocca confessare che siamo ancora agli albori. Domandate a una persona non del settore quale cantina segue sui social, quale personalità legata al mondo del vino conosce o quale cantina vorrebbe visitare durante le sue prossime vacanze. Ecco, se la risposta è “bo” non è la targa di Bologna, ma un nostro madornale errore che va assolutamente corretto. Nel più classico degli esempi di paradosso all’italiana, infatti, chi dispone dei fondi non ha le competenze per poter valutare/misurare l’operato e quindi molto spesso le risorse vengono gettate senza alcun tipo di riscontro o conversione. Così ci siamo imbarcati in campagne promozionali di dubbio successo, dalla famosa “open to meraviglia” fino alla questione dell’influencer marketing, un fenomeno, quest’ultimo, pronto ad dopare e falsare l’effettiva utilità dell’operazione a scapito di una filiera che dovrebbe passare dalla domanda all’offerta attraverso i soggetti preposti alla comunicazione, ma dove ci si ritrova a fare i conti con testimonial che semplicemente prestano il loro volto, corpo o vetrina digital in favore di un prodotto, idea, azienda dove molto spesso non è entrato alcun cenno di illuminismo, vale a dire dove il senso della ragione, della trasparenza e della critica, non hanno minimamente trovato spazi. E poi, siti web ed e-commerce poco user-friendly, storytelling e brand identity copia-incolla l’un l’altro, esperienze di degustazione e visite concepite sotto forma di monologo e autoreferenzialità. Insomma, perchè investire in una corretta comunicazione? Perchè dal packaging ai social, dalla propria presenza in fiera fino all’enoturismo, sappiamo benissimo che non è solo il prodotto che parla, ma come lo fa e verso chi, e no, non bastano parole come qualità/passione/territorio per riuscire ad evidenziare le proprie unicità in questa catena arrugginita in cui ci sono troppi prodotti, troppi produttori, meno consumi e meno consumatori. Non occorre mentire, ma serve trovare il proprio posto nel mercato o crearlo.
Sto scrivendo un racconto che proietta il lettore in un futuro non troppo lontano, dove la stretta sui consumi, le restrizioni e l’ondata healthy travolgono il vino come fu circa un secolo fa con il proibizionismo in America, vietandolo del tutto. Le cantine vengono distrutte, i vigneti vengono bruciati e i wine bar demonizzati come luoghi dell’orrore. Qualche bottiglia nascosta tra cantine murate e rifugi improbabili diventa merce di scambio preziosissima, ma pericolosa da detenere. La propaganda evidenzia i mortali effetti dell’alcol sulle persone e viene cancellata la memoria collettiva di generazioni che a tavola hanno consumato questa bevanda maledetta. Non voglio svelare il finale, ma anticipo solo che quello che doveva decretare la scomparsa del vino, sarà in realtà un nuovo inizio per la produzione e il consumo nel mondo, mentre la popolazione, assuefatta da antidepressivi, bevande alterate e solitudine, tornerà a gettarsi nelle campagne dopo questo lungo e drammatico periodo di detenzione in cui non occorreva “eliminare il vino”, ma comprenderlo.
A parte ciò, tornando con i piedi per terra, lo scenario attuale ci lascia intravedere alcune direzioni che il vino percorrerà, segnando una virata sui registri e le aree di produzione, così come la comunicazione e il consumo. Troppo semplice sentenziare che il vino andrà verso produzioni “più snelle e meno alcoliche” mentre il consumatore “sempre più consapevole, è alla ricerca di storie e peculiarità territoriali”. Dobbiamo assumere che il vino sta perdendo quelle generazioni dove la consuetudine ci permetteva di entrarci a contatto prima, in modo da poter qualificare la nostra traiettoria poi. Domani invece, analizzando anche i dati relativi alle popolazioni e alle economie, dovremo comprendere come entrare e in quale misura verso quelle comunità che non hanno un forte legame con questa bevanda, evitando forzature e mantenendo ben saldo il suo ruolo di testimone del tempo, dei luoghi e della società tutta, con i suoi pregi e i suoi difetti, augurandoci che i primi siano quelli che gli rinnoveranno altri millenni di storia in futuro.
Nello Gatti
Ciao sono Nello Gatti, L’Ambasciatore. Sono figlio di emigranti che dalla città di Giordano Bruno trovarono fortuna nella Stalingrado italiana di Giorgio Bocca a fine anni ’80, ma è dove sono nato il vero mistero: Avellino. Così, nato in DOCG Irpina da famiglia del Lacryma Christi trapiantata in Lambrusco Valley, il vino è stata la sola strada, il resto una conseguenza.
Studi in Economia e un lungo affinamento tra fogli di giornale, valigie e calici che si riempivano tra un Walzer a Vienna, una rumba iberica e una danza della pioggia nella Londra della Brexit e della Regina prima di rientrare in Italia appena in tempo per viversi in pieno una pandemia mondiale che sconvolge ogni piano appena avviato. Nonostante ciò, ogni annata porta con sè un qualcosa di positivo. Nel mio caso: consapevolezza.
Sono un COMUNIC-AUTORE. Mi sono occupato per oltre un decennio di Cantine e importatori, di eventi e vendita, sotto varie forme e per diverse aziende prima di elaborare la mia cuvée, ovvero una serie di servizi professionali verso le Aziende e veritieri nei confronti della community, senza sofisticazioni e tendenti al Pas Dosé.
Il segreto? Aggiornarsi sempre, confrontarsi spesso, cedere alle markette mai!